Capitolo 8

13/02/2020 TortugaEcon

Perché decentralizzare la contrattazione salariale

Il difficile equilibrio nella contrattazione nazionale

La contrattazione nazionale prevede che gli standard contrattuali e le retribuzioni minime siano omogenee sul territorio, imponendo quindi il medesimo trattamento anche a realtà fortemente difformi sul piano della produttività.

Premessa 

La contrattazione nazionale prevede che gli standard contrattuali e le retribuzioni minime siano omogenee sul territorio, imponendo quindi il medesimo trattamento anche a realtà fortemente difformi sul piano della produttività. In contesti nazionali disomogenei (che costituiscono la norma piuttosto che l’eccezione in Europa) questo può avere un duplice svantaggio. Da un lato inibisce l’innovazione contrattuale e l’applicazione di incentivi per le realtà più produttive della media, dall’altro può prescrivere requisiti minimi eccessivi per quelle che si trovano nella situazione opposta. In questo secondo caso il risultato più frequente è che vi sia un aumento della disoccupazione, o quantomeno uno scostamento tra la copertura teorica del contratto nazionale e quella effettiva, con le realtà più svantaggiate che si sottraggono alla sua regolamentazione preferendo rapporti di altro tipo, giudicati più convenienti e accessibili, ma non sempre conformi alla legge. Di converso, una solida contrattazione decentrata può allineare il salario alla produttività, incentivandone l’incremento, ma anche l’uscita dal sommerso e l’ingresso di nuove imprese nel mercato per le realtà meno competitive rispetto alla media nazionale. La contrattazione decentrata si presenta anche come uno strumento più flessibile per gestire le situazioni di crisi, in quanto permetterebbe di poter modificare il costo del lavoro e non per forza affrontare la scelta tra licenziamento e cassa integrazione. Infine alcuni studi hanno mostrato come questo strumento sia più efficace nella gestione di forme accessorie di retribuzione, come il welfare aziendale o i premi di risultato1. 

È opportuno ricordare che il ritenere la contrattazione nazionale e decentralizzata come mutuamente esclusive è altresì un errore. I sistemi sono necessari l’uno all’altro, in quanto il primo ha il ruolo di definire parametri comuni, che possono essere applicati su tutto il territorio nazionale, mentre il secondo applica delle deroghe al primo in modo da meglio adattare la contrattazione alle necessità e caratteristiche delle realtà particolari. L’obiettivo del legislatore e delle parti sociali è la costruzione di un benefico equilibrio tra le due dimensioni, in quanto una agisce da correttivo sull’altra. Infatti, se ad esempio la decentralizzazione contrattuale consente un maggiore allineamento delle retribuzioni alla produttività, può anche svantaggiare eccessivamente i lavoratori ove il potere contrattuale dell’azienda è marcatamente maggiore. Ecco che la possibilità di appellarsi ad una contrattazione nazionale si presenta dunque come correttivo a possibili abusi di una posizione dominante. Vi è inoltre il rischio che le aziende utilizzino la decentralizzazione contrattuale per abbassare i salari senza tuttavia reinvestire il denaro risparmiato, con conseguente impoverimento dei redditi e della domanda interna di una regione e più in generale esiti regressivi per la sua economia. Ecco perché strumenti di salvaguardia dei redditi come un salario minimo previsto per legge sono necessari al buon funzionamento della contrattazione decentrata, come compensazione per una posizione di relativa debolezza dei lavoratori. Una proposta di decentralizzazione della contrattazione non può prescindere da questi strumenti.

Fonti normative 

Nel nostro paese la contrattazione dei rapporti di lavoro si svolge già su vari livelli. Procedendo dal livello più generale a quello più specifico, è opportuno cominciare dall’accordo interconfederale, stipulato tra confederazioni sindacali e associazioni di imprese a livello nazionale, con la finalità di stabilire delle regole riguardanti le relazioni industriali valide per tutti i lavoratori, indipendentemente dal settore produttivo di appartenenza. Sempre a livello nazionale vi è poi il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL), frutto di una contrattazione collettiva ancora nazionale, ma a livello di settore. Tali contratti costituiscono la fonte del diritto principali per i rapporti di lavoro italiani. Infatti è qui che si definiscono i livelli di retribuzione validi su tutto il territorio nazionale, con incrementi commisurati al tasso di inflazione programmato dal Governo (con possibilità di rinegoziazione periodica). Infine sono previsti altri due livelli di contrattazione progressivamente più specifici, raggruppati nella cosiddetta contrattazione “di secondo livello” : la contrattazione territoriale interconfederale e di categoria e la contrattazione aziendale di categoria. Quest’ultima rappresenta la realtà con gli effetti maggiormente circoscritti: si svolge infatti tra le rappresentanze sindacali e il singolo datore di lavoro nell’ambito di una singola impresa.  

Ogni livello “gerarchicamente superiore” definisce spesso le forme ed i limiti in cui è possibile svolgere la contrattazione del livello inferiore. Si riafferma dunque il principio valido anche in altri ordinamenti europei per cui alla contrattazione nazionale spetta un ruolo di “cornice”, ossia quello di stabilire i minimi entro cui poi attuare le eventuali deroghe che meglio si prestano alle realtà più specifiche del mercato del lavoro nazionale. 

In materia di decentralizzazione della contrattazione, il testo normativo di riferimento è il Testo Unico sulla rappresentanza, siglato il 10 gennaio 2014 tra Confindustria e le sigle sindacali di CGIL, CISL e UIL. Nell’accordo si recepiscono e attuano i contenuti dell’Accordo Interconfederale del 28/6/2011, del Protocollo di Intesa del 31/5/2013 e si aggiornano i contenuti dell’Accordo Interconfederale sulle Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU) del 20/12/1993. È innanzitutto da notare come queste fonti del diritto non siano di natura legislativa, infatti nascono proprio per conseguenza dell’assenza di un intervento del legislatore che non ha mai dato seguito ai dettami dell’articolo 39 della Costituzione. In tema legislativo esistono due eccezioni, costituite dall’art.8 del decreto legge 138/2011 e dall’art. 51 del decreto 81/2015 (Jobs Act). Il primo fu varato dall’ultimo Governo Berlusconi proprio nel tentativo di sopperire al vuoto legislativo in una situazione di urgenza in cui versava l’economia italiana, mentre il secondo è stato varato dal Governo Renzi e sancisce pari importanza tra i contratti di secondo livello e i CCNL. I contenuti di questi documenti sanciscono poi le regole per l’individuazione delle rappresentanze sindacali adibite alla contrattazione del rapporto di lavoro e le materie afferenti a ciascun livello di contrattazione. 

Per quanto riguarda le materie affrontabili dai contratti di secondo livello, già l’Accordo Interconfederale del 2011 prevede che “I contratti collettivi aziendali possono […] definire, anche    in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle  regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro.”. Inoltre, “al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa, possono definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”. È dunque previsto, come anticipato, che il contratto di secondo livello comporti deroghe al CCNL in via eccezionale, e in materie riguardanti principalmente l’organizzazione del lavoro. L’art.8 del d.l. 138/2011 offre un elenco più dettagliato delle materie affrontabili dai contratti di secondo livello, che spaziano dalla regolamentazione dell’adozione di nuove tecnologie alle conseguenze del recesso del rapporto di lavoro2. 

Si presenta un quadro che quindi lascia un buon ambito di manovra alla contrattazione in azienda, ma che tende a porre diversi limiti alla sua parte economica e quindi a salari e retribuzioni. Riguardo a questo ambito, infatti, nonostante l’art. 51 del Jobs Act, rimane saldo in principio per cui, rispetto al contratto nazionale, quello decentrato non può modificarne gli aspetti in peius. In assenza di un altro istituto preposto, il CCNL per conseguenza si assume il ruolo di stabilire nei fatti un vero e proprio salario minimo nazionale (attraverso l’affermazione dei “minimi tabellari”) con effetti su tutto il territorio nazionale. Tale salario minimo nazionale non tiene però conto delle differenze nel costo della vita tra Regioni italiane e richiede quindi gli stessi standard retributivi a prescindere dalla dislocazione dell’impresa. Inoltre, proprio perché la sua funzione principale è de facto quella di garantire i minimi retributivi, esso segue una dinamica influenzata principalmente dall’andamento dei prezzi e non da quello della produttività del lavoro. Infatti, come già anticipato, i minimi tabellari vengono aggiornati periodicamente in base alle previsioni inflazionistiche del Governo vengono rivisti dalle parti sociali ogni tre anni. 

Il CCNL viene dunque caricato sia della funzione economica di stabilire rapporti vantaggiosi ed efficienti tra le parti, sia di quella sociale di imporre limiti dignitosi alla stessa, impedendo che il salario scenda al di sotto di una determinata soglia ritenuta accettabile e richiedendo il medesimo trattamento a tutti i lavoratori sul territorio nazionale. 

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