Capitolo 9
Meritocrazia o familismo? Perché i giovani se ne vanno
Ci sentiamo spesso ripetere, nei media e nelle piazze, che la meritocrazia è uno dei difetti atavici dell’Italia. Nel capitolo 9, abbiamo visto come i migliori studenti – quelli che si laureano con il 110 e Lode, magari in materie STEM – decidono più frequentemente di lasciare il paese rispetto a chi si laurea con voti meno brillanti. Fra i tanti motivi che spingono le nostre menti migliori ad andarsene c’è la prospettiva di carriera. Esistono numerosi siti dove è possibile consultare gli stipendi per lo stesso lavoro in diversi paesi e ormai l’inglese è sempre più diffuso, perciò è più semplice confrontarsi con dei coetanei impiegati all’estero e magari sostenere un colloquio di lavoro. Le barriere sono sempre più sottili e le aziende italiane dovrebbero quindi indossare il loro migliore abito per far colpo sui nostri cervelli. Ciò, purtroppo, succede in pochi casi. Non solo il salario offerto è più basso rispetto alle controparti straniere (anche a parità di potere d’acquisto), ma anche l’ambiente di lavoro è meno attrattivo.
Ci aspettiamo, infatti, che un laureato con il massimo dei voti si aspetti di essere valutati su basi meritocratiche e ottenere promozioni principalmente in base a tali valutazioni, piuttosto che in base alla seniority. Sarebbe come se la Juventus facesse giocare Buffon al posto di Szesny, nonostante quest’ultimo stia dimostrando migliori performance.
A tal proposito, ci può tornare utile un bell’articolo del 2017, targato Zingales e Pellegrino (due fra i più brillanti economisti italiani), in cui si cerca di individuare il motivo della stagnazione italiana negli ultimi vent’anni. Gli autori partono da diverse ipotesi: è stata l’adozione dell’euro? Forse la concorrenza cinese, che ha sbaragliato molte nostre imprese? O magari l’eccessiva rigidità del mercato del lavoro, che allontana gli investimenti e rende difficili le assunzioni? Dopo una lunga e accurata analisi, nessuna di queste prime tre possibilità porta ad un risultato convincente. Pellegrino e Zingales testano quindi un’ultima ipotesi: è forse la scarsa meritocrazia del paese che spiega il ventennio a crescita zero? Effettivamente, comparando l’Italia con gli altri paesi, emerge come la scarsa innovatività, combinata con la meritocrazia più bassa nel gruppo di stati considerati, abbia determinato la nostra stagnazione. Per cogliere le opportunità della digitalizzazione e delle nuove tecnologie, infatti, servono giovani brillanti e/o professionisti competenti. Ciò richiede un radicale cambio di passo nelle imprese, che devono adottare criteri di valutazione basati sui risultati di ciascun impiegato piuttosto che sulla fiducia verso tale impiegato o gli anni che ha trascorso all’interno dell’azienda. L’Italia ha scelto di rimanere sul binario morto su cui stava correndo da tempo. Gli autori hanno infatti rilevato come tuttora le promozioni avvengano maggiormente per criteri di fedeltà o clientelismo piuttosto che per merito, in parte spiegato dalla scarsa qualità delle istituzioni del paese.
Le prospettive per un giovane italiano non sono quindi delle migliori: gli avanzamenti vengono determinati in base all’età e al tempo trascorso all’interno dell’azienda. I risultati al di sopra della media non sono sempre riconosciuti e comunque non portano a vantaggi rilevanti rispetto ai colleghi. Di fronte a questo panorama desolante, non ci sorprendiamo se i nostri coetanei scelgono sempre più spesso la way out.
Per approfondire: Pellegrino, B. & Zingales, L. Diagnosing the Italian Disease, NBER Working Papers, 2017