Capitolo 9

13/02/2020

Point System: un metodo alternativo per gestire le migrazioni

Il point-based system viene usato da numerosi paesi anglosassoni noti per avere un modello di gestione dell'immigrazione di successo, in termini di qualità all'ingresso. Sarebbe replicabile anche in Italia?

Nel capitolo abbiamo visto come i paesi anglosassoni possano vantare una forte attrattività per gli immigrati qualificati e abbiamo esposto alcune delle possibili ragioni per cui questi stati godano di una reputazione tale da poter scegliere chi accogliere e chi respingere. 

È interessante analizzare i casi di Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda, che adottano i cosiddetti points-based immigration system. L’idea è semplice: chi desidera richiedere la cittadinanza deve compilare un questionario con domande mirate sul proprio background accademico e lavorativo, e riceve un punteggio di conseguenza. Ad esempio, un giovane fra i 25 e i 30 con un lavoro e una laurea in discipline STEM otterrà un punteggio significativamente più alto rispetto a un cinquantaduenne con il diploma di scuola superiore. Chiaramente, ciascuno stato può aggiungere altri criteri ritenuti importanti: la fedina penale intonsa, la presenza di familiari nel paese dove viene presentata la richiesta, oppure – perché no – un Nobel o una medaglia olimpica. 

Storicamente, il primo paese ad adottare il sistema a punti è stato il Canada, nel 1967. Una fra le principali ragioni era la scarsa competenza di inglese e francese degli immigrati. Il risultato fu impressionante: si passò dall’85% di ingressi europei a un misero 15%, riflesso anche in un drastico calo dei permessi concessi. Pochi anni dopo, nel 1972, l’Australia seguì l’esempio e decise di assegnare la cittadinanza a chi potesse contribuire maggiormente alla crescita del paese. Nel 1989 virò verso il modello canadese, che viene tuttora preso ad esempio dai politici che propongono di passare a un sistema a punti – primo su tutti Donald Trump. È interessante notare che sia Canada che Australia abbiano cominciato con dei parametri puramente in base al capitale umano dei richiedenti – come gli studi o le lingue – per poi introdurre dei generosi punteggi nel caso gli appellanti abbiano già trovato lavoro nel paese. Prima di questa piccola ma importante riforma, infatti, gli immigrati mostravano un tasso di disoccupazione più alto rispetto ai nativi, non riuscendo quindi a contribuire al benessere complessivo del paese. 

Un altro caso interessante è quello del Regno Unito, che rimane l’unico paese europeo ad adottare un point-based system – per quanto ancora rudimentale. La permanenza nell’Unione Europea (al momento messa in discussione da Brexit) non permette di discriminare in alcun modo gli ingressi da altri stati membri, perciò il Regno Unito ha introdotto parametri che si applicano solamente agli extracomunitari. Tali regole, introdotte nel 2008, sono state però ridiscusse dal governo pochi anni dopo, risultando in un loro drastico ridimensionamento. L’esempio britannico mostra le difficoltà dell’implementazione di una politica simile all’interno del vecchio continente. 

Ora tocca alla domanda più importante: possiamo adottare un point-based system in Italia? La risposta è probabilmente negativa. I paesi sopra citati godono tutti di un’ampia offerta di richieste di cittadinanza, per cui possono permettersi di restringere la domanda per selezionare i migliori immigrati. Inoltre, saremmo soggetti alle normative europee, fra i cui pilastri vi è la libera circolazione di persone. Come il Regno Unito, potremmo selezionare gli ingressi solo per i cittadini extracomunitari. Il nostro paese ha invece bisogno di aprirsi maggiormente per attrarre cervelli; vista la scarsa attrattività di cui godiamo al momento, restringere la domanda di immigrati non sarebbe saggio. Al contrario, dobbiamo accogliere le migliori menti straniere offrendo loro un ambiente dinamico e dei salari competitivi, grazie agli sgravi del Brain Prize che proponiamo a fine capitolo.

Point Based System